Taccuini poetrici

Carol Ann Duffy (o come li vede lei…) a Osterime, 5 marzo 2014
Appunti dalla Redazione di Poetria

Poetria Movimento Clandestino di Resistenza propone per il prossimo 5 marzo 2014, all’Osteria al Carroarmato (vicolo Gatto, Verona) letture in orario d’aperitivo con una poetessa ancora poco nota in Italia, nonostante la sua chiara fama – talvolta contrastata – nel mondo anglofono.
Carol Ann Duffy Poetria OsterimeLa portata poetica del Poeta Laureato Carol Ann Duffy (Glasgow 1955-) si esprime in una capacità di proporre, con occhio sottilmente ironico, una diversità prospettica su ogni tipo umano, che sia mostro o bambino, essere puro o  corrotto, fino a mostrarsi tutta nella Moglie del mondo (ed. Feltrinelli, titolo originale: “The World’s Wife”, 1999) , silloge che presta una voce particolare alle “invisibili e inudibili” della storia: le donne.
In questo volume, Carol Ann Duffy presenta trenta ritratti di mogli di uomini celebri, della storia e della mitologia. Ciascuna moglie esalta o depreca il proprio consorte in una combinazione di sarcasmo e romanticismo che, in alcuni casi, raggiunge punte di estremo cinismo e ironia.
Queste versioni inedite e dissacratorie offrono una rivisitazione, ma anche uno smantellamento, dell‘immagine stereotipata degli uomini famosi chiamati in causa, mostrando in Duffy una scrittura irriverente e sovvertitrice.
L’aperitivo poetrico si svilupperà principalmente, ma non esclusivamente, attorno alla raccolta della La moglie del mondo, alternando poesie tradotte in italiano a qualche lettura in inglese.
La poesia di Duffy non ha solo la funzione di scardinare ogni sorta di autoconvincimento o di luogo comune, ma si pone anche come narrazione creativa che trascina in una nuova dimensione l’ascoltatore (o il lettore), lasciandolo disorientato su un terreno in cui tutti i punti di riferimento possono svanire, tra la quotidianità e il fantastico, e dove il maschile si confonde con il femminile, l’umano con il disumano, l’aulico con il popolare. La  poesia di Duffy è gioco, ma di un tipo di gioco quantomeno anticonsolatorio e anticompiaciuto. Un viaggio forzatamente responsabile per terre inesplorate, dove i confini delle identità possono sfumare o essere ridefiniti in qualunque momento.

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Ricordando Pier Paolo Pasolini – Appunti di Mario Allegri
Letteratura moderna e contemporanea, Università di Verona

Ieri, 5 marzo 2012, cadeva il novantesimo anniversario della nascita di Pier Paolo Pasolini.
Riordinando i miei appunti ho trovato questa definizione di Pasolini: “Un cuore incapace di economie”.
Non ne ricordo l’autore, ma mi sembra una sintesi efficace di ciò che egli diceva di se stesso: “Amo la vita così ferocemente, così disperatamente, che non me ne può venire bene: dico i dati fisici della vita, il sole, l’erba, la giovinezza: e io divoro, divoro, divoro… Come andrà a finire, non lo so”.

Come è andata finire lo sappiamo, il perché invece è ancora avvolto in uno dei tanti misteri dell’Italia di allora. Ci restano comunque la sua opera e la sua figura, ancora estremamente viva nell’immaginario collettivo, che non smettono di interrogarci e di toccare i tanti nodi rimasti tuttora scoperti della cultura e della società italiane.
In occasione di questo anniversario dappertutto, in Italia e in Europa, lo si celebrerà come artista e intellettuale tra i più grandi e complessi del secondo Novecento.
Di altri, non meno importanti di lui e forse anche di più (penso a Vittorini, a Pavese) le tracce si vanno facendo sempre più labili, il loro nome e la loro opera sono ormai esclusiva di specialisti del mestiere letterario.
Di Pasolini invece si continuerà a parlare ancora per molto, e ogni tentativo di seppellirlo nell’infamia di una fine atroce o di sindacare le sue tante contraddizioni costringerà tuttavia a rifare i conti anche con la sua opera, perché nel bene e nel male, come ha scritto Pier Giorgio Bellocchio, la sua vita è da subito e sino alla fine letteratura. Nessuno in Italia, dopo D’Annunzio, ha intrecciato così strettamente vita e letteratura, l’esistenza intera vissuta come un’esperienza creativa, un’opera d’arte incisa nel fango di quel quotidiano che il Franz Bieberkopf di Berlin Alexanderplaz diceva impastato di “zucchero e letame”, ma levando sempre lo sguardo al cielo dell’arte, in una trama non sempre facile da districare.
Pier Paolo PasoliniD’altra parte, “essere morti non significa essere compresi”, aveva scritto una volta. Ma se per tanti Pasolini è ancora oggi difficile da comprendere, certamente è impossibile da dimenticare: “Di lui – aveva profetizzato un commosso Moravia il giorno del funerale – tra trent’anni la società italiana avrà rimpianto, nostalgia, ma, più ancora, ne avrà tremenda necessità”. Necessità anche dei suoi scandali, che solo in minima parte si legano alla sua scelta sessuale, strumentalmente enfatizzata in quell’Italia degli anni Cinquanta- Sessanta, che definiva “un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni”.

Resta da capire cosa intendiamo per scandalo.
Scandalizzare, per Pasolini, era non tanto voglia di stupire o di spiazzare gli altri (anche questo, certamente), quanto soprattutto il bisogno di una feroce indipendenza, una lacerante propensione verso quella che definiva “l’ardente atmosfera della verità”, fedeltà a se stesso sino all’autolesionismo, sino a sviscerare in pubblico e come su una scena le sue contraddizioni più intime, sino a gettare sul terreno, come ha scritto Adriano Sofri, con i propri pensieri il proprio corpo.
E il suo corpo martoriato è rimasto sul terreno, in un campo incolto sommerso da rifiuti sul lido di Ostia: “è necessario che vi siano scandali – si legge in Matteo, 18,7 – ma guai a quell’uomo a causa del quale viene lo scandalo”. E Pasolini il suo scandalo l’ha pagato, proprio come pronosticava il “suo” Matteo.
Ma non soltanto quel corpo deve rimanere nella nostra mente.

Ben altro è stato Pasolini.
La sua rilevanza nella storia culturale e civile dell’Italia del secondo dopoguerra è incontestabile, come incontestabile è l’ampiezza di una passione culturale e civile che lo ha spinto ad intervenire in ogni campo del sapere, in ogni situazione, e che ha dato un altro spessore e un altro significato alla sua sensibilità politica.
Per lui non esistevano divisione del sapere, ma campi preferenziali entro cui intervenire. Le polemiche, troppo spesso strumentali, su ciò che è vivo o che è morto nella sua opera lasciano il tempo che trovano e dunque lasciamole nella foresta delle parole che le hanno accompagnate. D’altra parte, è stato Pasolini stesso a rimescolare continuamente le carte, a sconfinare disinvoltamente in ogni ambito, non già per pura trasgressione, bensì per una sorta di urgenza espressiva: dal romanzo al cinema, dalla poesia alla saggistica e alle arti figurative, secondo un’esigenza più esistenziale che culturale che lo spingeva a misurarsi senza preconcetti o senza sostenersi con qualche tecnica protettiva laddove individuava un nervo scoperto, una sensibilità tormentata in cui riconoscersi.

Il tormento, la cura particolare di esibire la propria diversità, il gusto della polemica anche violenta e di offrirsi come bersaglio rimontavano forse anche alla nostalgia di una cultura integrale come quella contadina, di cui si riconosceva discendente, che potesse ricomporre un uomo che egli vedeva invece drammaticamente diviso.

“Fui poeta – scrive e sembra un epitaffio – cantai la divisione nella coscienza di chi è fuggito dalla sua città distrutta e va verso una città che deve ancora essere costruita”.
In un paese in cui l’intellettuale è per tradizione cortigiano, cantore servile e accorto del sussistente, Pasolini si è fatto profeta della precarietà e della contraddizione. È questa la sua più vera diversità, una diversità che in una società come la nostra che tutte le consuma e logora, lo rende ancora inconsumabile. Perché dietro la sua poesia, i suoi film, i suoi saggi, i suoi romanzi, i suoi scritti corsari, c’era, e rimane, qualcosa di radicale, di disperatamente autentico e originario, tanto da considerarsi “un feto adulto”.
Quanto più è stato vicino al potere (quello culturale, quello dei media) questo qualcosa gli ha sempre impedito di cadere nell’ovvio, nella volgarità del consumo, lui che di volgarità è sempre stato accusato.
Se c’è una costante, una linea prevalente che ci aiuta a leggerlo nella sua complessità e totalità questa è il suo impegno civile. Una costante, come ha scritto Enzo Golino, che si legge nella sua “divorante ansia didattica”: l’urgenza dell’agire sempre coniugata con l’urgenza del capire, e dunque passione e ideologia, il fare in stretta dipendenza del conoscere, del dire, del far vedere.
Maestro naturale, Pasolini si è rivolto al popolo per rieducarlo, rispettandone le radici e l’identità, con una nostalgia divorante per un paese e per un tempo in cui gli analfabeti possedevano il mistero della realtà, e si è rivolto all’amata-odiata borghesia per ri-educarla proprio ricorrendo allo strumento dello scandalo. Ma questa ansia didattica e civile non sarebbe bastata a renderlo realmente diverso se dietro non ci fosse stata una profonda, insanabile disperazione: quella che egli ha chiamato “divisione nella coscienza” e che ne ha fatto il meno italiano dei grandi di questo secolo (non a caso amava usare per sé l’aggettivo “luterano”).
Pessimista rispetto all’ideologia, all’antropologia, alla storia, alle classi, dentro ogni nuova opera rappresentava questa divisione, un conflitto radicale tra amore mitico, onirico per l’utopia della vita (il suo tanto rimproverato vitalismo) e una sensazione onnipresente, ossessionante, della morte. Un conflitto senza possibilità di composizione.
Contestando Hegel e Marx, quanti cioè postulavano una sintesi che potesse superare la contraddizione, diceva semplicemente: “ è troppo comodo. La vita non conosce sintesi, ma solo contraddizioni, nell’anima e nella carne: sogno della vita e incubo della morte”. Come ha scritto Alberto Asor Rosa, l’estremismo radicale delle Lettere luterane è figlio dell’annullamento di ogni margine di compromesso e di mediazione. Dietro questa lucidità di sguardo implacabile si nasconde intorno a lui e in lui una oscura pulsione di morte, il prezzo pagato alla profezia.

Un pessimista, dunque, ma con un’ansia pedagogica e civile fortissima, vissuta con una forza disperata ignota agli ottimisti, tuttavia in qualche modo artificiale, perché voluta e non fondata. Di qui, una lacerazione non mai componibile: “un inattuale –si definiva – costretto a vivere nella storia, in un sogno orribile che si è sostituito al sogno innocente”, condannato a essere decifrato e travisato da uomini prosaicamente attuali.
“Sono passato così come un vento dietro gli ultimi muri o prati della città – o come un barbaro disceso per distruggere, e che ha finito col distrarsi a guardare, e a baciare qualcuno che gli assomigliava – prima di decidersi a tornarsene via”.
A morire insomma.

La morte – scriveva – fa della vita quel che il montaggio fa del film: realizza un senso che già era implicito in ogni fotogramma precedente e che attendeva soltanto di essere sciolto nell’ultima scena.
Il senso, tragico e altissimo, della sua vita l’aveva già intuito nei bellissimi versi giovanili in friulano delle Litanie del bel ragazzo (tradotte dallo stesso Pasolini in italiano):

Oggi è Domenica,
domani si muore,
oggi mi vesto
di seta e d’amore.
Oggi è Domenica,
pei prati con freschi piedi
saltano i fanciulli
leggeri negli scarpetti.
Cantando al mio specchio,
cantando mi pettino.
Ride nel mio occhio
Il Diavolo peccatore.
Suonate, mie campane,
cacciatelo indietro!
“Suoniamo, ma tu cosa guardi,
cantando, nei tuoi prati?”
Guardo il sole
di morte estati,
guardo la pioggia,
le foglie, i grilli.
Guardo il mio corpo
di quando ero fanciullo,
le tristi Domeniche,
il vivere perduto.
“Oggi ti vestono
la seta e l’amore,
oggi è Domenica
domani si muore”.

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